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Riflessioni sull'evoluzione degli obiettivi marziali

  • Immagine del redattore: Rebel Dragon
    Rebel Dragon
  • 21 ago
  • Tempo di lettura: 5 min

Quando si mette piede per la prima volta in una palestra, in un dojo o su un tatami, raramente ci si rende conto di dove ci porterà quel gesto. I motivi per cui si inizia sono tanti e variegati: curiosità, la voglia di seguire un amico, una sfida personale, il desiderio di sentirsi più forti o più sicuri.

Con il passare del tempo e degli allenamenti, però, gli obiettivi cambiano. A volte lo fanno lentamente, quasi senza accorgersene. Altre volte per necessità: dopo un infortunio, un cambiamento nella propria vita, o una semplice presa di coscienza.


C’è chi si allena per combattere.

C’è chi si allena per competere.

C’è chi si allena per stare bene.


E spesso, queste tre spinte convivono. Si alternano. Si contaminano a vicenda. Ma qualunque sia il punto di partenza, una cosa è certa: la crescita richiede movimento. Non solo fisico, ma anche mentale.

Perché - citando un grande Maestro (Shifu, da Kung Fu Panda) - Se fai solo quello che sai fare non sarai mai più di quello che sei ora.E nelle arti marziali, questo significa rimanere fermi: tecnicamente, emotivamente e umanamente.

Crescere vuol dire superare i propri limiti, reali o immaginari. Esporsi all’incertezza, accettare il disagio, accogliere il dubbio. A volte vuol dire cambiare Maestro, ripartire da zero o stravolgere abitudini. In definitiva, lasciare la propria comfort zone.

Sì, tutto questo può generare stress o ansia. Ma è anche quella spinta vitale che porta un individuo ad apprendere, a migliorare, a diventare qualcosa di più. Capire perché ci alleniamo oggi, e non semplicemente ripetere ciò che facevamo ieri, può essere uno dei passaggi più maturi e consapevoli del nostro percorso marziale.


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Allenarsi per Combattere


Entrare nel mondo del combattimento può risultare difficile all'inizio. Allenare il fiato, la coordinazione, il footwork, la tecnica, il condizionamento del corpo: tutto questo richiede tempo, pazienza e dedizione. Allenarsi per combattere significa accettare il conflitto, saper reggere la pressione, imparare a non voltarsi dall’altra parte quando servono presenza e decisione.

C'è anche chi si avvicina al combattimento mosso da una forma di curiosità più profonda: cosa succede davvero quando tecnica, strategia e istinto si incontrano nel caos controllato di uno sparring? Non c’è necessariamente aggressività in questa ricerca. Anzi, spesso c’è rispetto, voglia di mettersi alla prova, e un desiderio quasi filosofico di capire qualcosa di sé attraverso l’altro.

E poi, sì, ci sono anche quelli che provano un autentico godimento nel combattere, sentendolo come qualcosa di vivo, appassionante e totalizzante. Persone che utilizzano il combattimento come forma di espressione personale, che amano profondamente il gesto marziale: lo scambio, la pressione, la sfida. Per loro, è un linguaggio. Lo scontro, in questo senso, non è violenza: è disciplina, confronto e passione, con l’altro, certo, ma soprattutto con se stessi.


Allenarsi per Competere


Partiamo da un presupposto: Competere è una scelta.

Non è obbligatoria né inevitabile, ma per molti rappresenta una tappa fondamentale del percorso marziale. L’agonismo offre un contesto chiaro: ci sono regole, un tempo definito, un avversario concreto e un obiettivo preciso. E in questa chiarezza, c’è qualcosa di estremamente formativo.

Chi sceglie di gareggiare lo fa per ragioni diverse: per testare il proprio livello, per spingersi oltre, per provare l’adrenalina del match o anche solo per mettere ordine nella propria pratica quotidiana. Non c’è un approccio giusto o sbagliato: tutto dipende dalla persona, dal momento del percorso, dalla visione che ognuno ha della propria pratica.

Quello che è certo è che la competizione cambia radicalmente il modo di allenarsi. Suddivisione degli allenamenti, cura dell’alimentazione, attenzione al recupero e al sonno: tutto viene pianificato, misurato, affinato. L’allenamento non è più "solo" un’attività, ma un processo.

Allenarsi per competere significa allenarsi per vincere, certo, ma anche, soprattutto, allenarsi per perdere. Perché si può perdere in tanti modi: contro avversari più forti - giustamente -, per errori tattici o tecnici, o anche per decisioni discutibili da parte dei giudici. Ma imparare a perdere è forse la lezione più importante che l’agonismo può offrire.

Perdere senza cercare scuse, perdere trovando nella sconfitta non una frustrazione sterile, ma una direzione chiara per migliorarsi. Gestire la pressione, performare in un momento preciso, mantenere lucidità sotto stress: sono abilità che non si imparano in una o due gare. Si maturano con il tempo, con l’esperienza e con l’umiltà.

Allenarsi per competere significa anche accettare il sacrificio, la fatica e la ripetizione. Perché il confronto sportivo non perdona l’improvvisazione. È un confronto spietato, dove ogni errore viene amplificato, ogni dettaglio conta, ogni vittoria o sconfitta racconta qualcosa di sé.

L’agonismo è una scuola di consapevolezza che mette tutto in chiaro.

Ma chi sceglie di affrontarlo con equilibrio e lucidità, spesso ne esce più solido, dentro e fuori dal tatami.

La competizione, però, può anche logorare: generare ansia, creare aspettative, alimentare pressioni, sia esterne che interiori. Non a caso, molti atleti, dopo una certa età o dopo molte stagioni, sentono il bisogno di ricalibrare i propri obiettivi. Di smettere di dimostrare qualcosa agli altri e tornare a coltivare qualcosa per sé, verso un allenamento più personale, più sostenibile, più autentico.

In ogni caso, competere cambia.

Cambia il corpo, la mente, la relazione con la pratica e, se vissuta con maturità, la gara può diventare un acceleratore di crescita, non solo tecnica ma anche emotiva e umana.


Allenarsi per Stare Bene


Non tutti si allenano per combattere o gareggiare. C’è chi pratica semplicemente per stare bene. Un benessere che va oltre la tecnica, oltre il risultato: un equilibrio fisico, mentale ed emotivo. Perché sì, il corpo cambia con l’età, con lo stile di vita, con le esperienze e pretendere di allenarsi a 40, 50 o 60 anni con le stesse modalità di quando se ne avevano 20 non è solo poco realistico: può essere controproducente. Ma questa non è una scelta che arriva solo “dopo”. Anche a vent’anni si può iniziare a praticare senza interesse per la competizione, senza bisogno di dimostrare nulla, ma con il desiderio di ritagliarsi uno spazio di crescita personale.

Allenarsi per stare bene significa imparare ad ascoltarsi e adattarsi. A volte vuol dire rallentare. Altre volte, ripartire da zero. Ma sempre con l’idea che la pratica non è una semplice attività, bensì un investimento su di sé.

Allenarsi per stare bene non è un “ripiego”. È una scelta matura, spesso più difficile di quanto sembri, perché richiede di mettere da parte l’ego, la performance, il confronto e tornare all’essenza del gesto. Alla gioia semplice del movimento eseguito bene, alla serenità di un allenamento che lascia il corpo stanco ma la mente leggera.


In fondo, la domanda più utile da farsi è semplice:

"Che tipo di praticante voglio essere oggi?"


Diego

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